sabato 13 dicembre 2014

Tutti pazzi per Bari



Nell’estate del 2015 Bari viveva uno strepitoso boom turistico. Da tutto il mondo giungevano comitive di visitatori a godersi il sole e le bellezze architettoniche della capitale pugliese: americani, cinesi, tedeschi, boliviani, svizzeri. Alla pensione Vincenzo s’era prenotato persino un pullman di geometri di Katmandu.
Le ragioni di questo successo erano inspiegabili. Mentre gli operatori del settore brancolavano nel buio, battendo capocciate contro gli stipiti delle agenzie turistiche, i politici locali scuotevano la testa, allargavano le braccia e sorridevano a 32 denti, perché una comitiva di giapponesi s’era intrufolata in Regione e stava sempre a scattare foto. I giornalisti compatti facevano i complimenti a Vendola, che non sapeva cosa dire e ripeteva a tutti che la situazione era dirimente, anche a chi gli chiedeva l’ora.
Ma l’irruzione di Bari sullo scacchiere turistico internazionale non poteva essere indolore. Ci fu chi masticò amaro, chi bevve l’amaro calice, chi disse che erano cazzi amari: insomma, nei Touring Club di mezzo mondo si profilavano tempi per diabetici. La Sardegna arrancava, la Grecia si disperò, le Seychelles fallirono e Santo Domingo tentò il riciclo come meta sciistica, cambiando nome in Santo Domingo di Cadore per cercare di infarloccare il turista meno sgamato. In Thailandia si cominciarono a produrre orecchiette alle cime di rapa false, ma neanche la concorrenza di qualità venne premiata dal mercato.
Su tutto svettarono le parole del sindaco di Miami, che affrontò il problema da un punto di vista semantico e dettò una dichiarazione alle agenzie di stampa destinata a restare negli annali: “The situation is diriment”.
Per fortuna qualcuno volle andare in fondo al problema: il presidente delle Maldive, disperato perché i calciatori italiani ora preferivano farsi paparazzare a Molfetta, mandò una spia per carpire i segreti di quel clamoroso successo.
Ed ecco l’agente Pat Healy giungere a Bari direttamente dai 40 gradi maldiviani: era “la spia che venne dal caldo”. Pat era un grande professionista e per nascondere la sua natura di agente segreto maldiviano aveva scelto un metodo ingegnoso: si era travestito da agente segreto svedese! Capelli dorati, pelle argentata, mascella di platino e zaffiri negli occhi, era il travestimento più costoso della storia dello spionaggio mondiale, una roba che in confronto l’uomo da sei milioni di dollari sembrava un pezzente. Per dare un ulteriore tocco di svedesità al suo look, Pat indossava una t-shirt di Francesco Guidolin, che c’entra con la Svezia come Nelson Mandela con l’Estonia, però ho letto che Guidolin è nato lo stesso giorno di Ibrahimovic e comunque sentivo il bisogno di scrivere una minchiata.
Pat si affacciò in spiaggia e rimase allibito di fronte a quel muro umano che gli impediva di arrivare al mare e vedere quale prodigio naturale potessero mai essere quelle acque così rinomate. Provò ad avanzare a spallate ma non riuscì ad aprirsi una breccia, tentò la perforata di testa ma incocciò la pancia di un idraulico di Bisceglie, che avendo appena pranzato a melanzane fritte era particolarmente elastico, tanto da farlo rimbalzare indietro di 50 metri. Pat decise di sdraiarsi e strisciare sotto la massa balneante, ma finì dentro una pista per biglie e venne picchiato da una baby-gang di Monopoli, che in omaggio alle proprie origini aveva monopolizzato il settore del gioco da spiaggia.
Ma Pat non si perdette d’animo e puntò su un sistema sicuro. Tirò fuori il telefono e in perfetto barese da spiaggia gridò: “Mario carissimo! Cosa?? Svendita totale nel negozio di elettrodomestici qui di fronte??? Mannaggia li megghiu muerti toi squagghiati e spurisciati se vengo! Arriv prima di tutti gli altri!!”. La spiaggia si svuotò in 1 minuto e 14 secondi, si contarono 38 feriti, 90 contusi e un morto: il negoziante di elettrodomestici che davanti alla marea montante tentò di fare lo gnorri, dicendo che lui non sapeva di nessuna svendita.
Pat ora aveva la spiaggia tutta per sé e poteva finalmente guardare quel mare che stava dando del filo da torcere a tutti. Lo guardò, lo riguardò, lo guardò ancora, poi appoggiò il filo che stava torcendo e chiese a un pescatore: “Scusi, ma l’acqua dov’è?”.
“Cu minchia voi?”, rispose l’uomo, poco avvezzo all’ironia svedese di stampo maldiviano.
Pat si avvicinò alla battigia e guardò perplesso le onde che sciabordavano verso riva, poi scrollò le spalle, disse: “Mah…si vede che quest’anno va il grigio”. E se ne andò.
Nei giorni seguenti Pat si mischiò alla popolazione locale, per vedere se il segreto di quel successo risiedeva nelle capacità di accoglienza della cittadinanza. Cercando di imitare le abitudini degli indigeni, finì per mangiare giorno e notte come un maiale, poi si stufò perché la ghianda gli risultava indigesta e passò al classico panino pugliese. Fu subito amore. Pat scoprì sapori mai provati prima, capaci di sciogliere palati raffinati abituati a caviale, aragoste, ostriche e champagne. Quindi figuriamoci se non scioglievano il suo che mangiava zuppa di porri e crauti da anni.
Dopo tre giorni di panini, al colmo dell’estasi e del girovita, Pat venne colto da una lieve curiosità e chiese cosa fossero mai quei deliziosi manicaretti di carne che ne costituivano la farcitura. Scoprì così di aver mangiato per tre giorni cavallo, delizioso ma è un po’ seccante da mandar giù per uno che va al maneggio da quando ha tre anni, possiede un allevamento di pony e sul comodino ha la foto di Furia. Autografata.
Pat ebbe una crisi isterica e picchiò un ferroviere di Los Angeles, che veniva a Bari per la prima volta e siccome era sadomasochista dice che tornerà prima possibile. Poi aggiustò il tiro e cercò di picchiare una anziana che vendeva panini e in due giorni gli aveva rifilato mezzo Varenne, ma si sa che menare le donne del sud non è per niente facile e così Pat dovette scappare ignominiosamente.
Le cose si stavano mettendo male, il nostro era lì da quattro giorni e non aveva ancora cavato un ragno da un buco. Così si presentò in Regione per conoscere colui che pareva essere l’artefice ultimo del grande successo di Bari.
“Mister Vendola, I suppose”, disse Pat.
“Dirimente”, disse Nichi.
E fu subito amore numero due. La cosa è strana perché fino al giorno prima di partire Pat era parecchio eterosessuale: in carriera si era fatto tutte le maldiviane, molte tongane, qualche fijana e aveva pure una simpatia per una tizia di Ladispoli, conosciuta in Indonesia a un concerto di Nicola di Bali e poi trombata varie volte via mail. Ma l’irresistibile fascino di Nichi lo stregò, così Pat svalvolò e da quel momento iniziò a fare dei reportage sballati al suo capo, in cui narrava la Puglia come il posto più bello dell’universo, dove si mangia da Dio, il mare è uno spettacolo, le donne son bellissime, gli uomini poi non ne parliamo e se le Maldive sparivano sotto l’acqua alta del disgelo causato dal buco nell’ozono che si è riscaldato per via dell’effetto serra, lui se ne fotteva alla stragrande.
Pat raggiunse Vendola. Nichi era impegnato in un rinfresco per una comitiva di siberiani, ma si mostrò molto gentile e gli offrì del caviale.
“Arriva dalla Russia”, disse Vendola.
“Con amore?”, alluse Pat.
“No, con l’aereo”, disse Nichi.
Pat si sdilinquì nonostante Vendola non sembrasse affascinato dalla sua mascella sagomata a biliardo. Si toccò i biondi capelli cercando di mettersi in mostra, ma Nichi dissimulava alla grande, tornando ad occuparsi degli ospiti siberiani.
Ma un ulteriore problema arrivò ad intralciare i piani di Pat: il biondo maldiviano-svedese infatti si ritrovò tra le mani una gatta da pelare. Viste le strane abitudini culinarie del luogo si convinse fosse per il brodo, così iniziò a strapparle i peli tra miagolii di protesta, ma poi capì la metafora, gettò via la micia e il problema si presentò in tutta la sua urgenza: in un angolo, intento a sorseggiare un Negramaro dell ’87, c’era Ted Stroehmann, un agente segreto appena uscito di galera. Era “la spia che venne dal fresco”.
Pat lo raggiunse con passo felpato da agente segreto.
“Cosa ci fa una spia come te in un posto come questo?”, chiese, ormai propenso a tacchinare tutti gli uomini che incontrava.
“Pensavo di dire a tutti che sei delle Maldive”, rispose l’altro.
“Ah…fai la spia!”, disse Pat.
“Ovvio, è il mio lavoro”, disse Ted.
“Ma lo sai che chi fa la spia non è figlio di Maria?”, azzardò Pat, a corto di argomenti.
“Cazzo me ne frega, mia madre si chiama Jennifer”, chiuse Ted.
Pat scornato bofonchiò tra sé un “diriment…”, poi si allontanò e decise di assassinare il rivale. Per ogni evenienza, Pat teneva sempre un kalashnikov pieghevole in un doppiofondo dell’otturazione del molare anteriore destro, ma per recuperarlo ci voleva un dentista e con quello che costano in Italia era meglio lasciar perdere. Così si sfilò una lente a contatto, realizzata in pasta di cianuro e solubile in acqua, e la gettò nel tazzone del ponch. Ma dopo un quarto d’ora la lente non accennava a sciogliersi visto che, come si è detto, era solubile in acqua, mica nel ponch. Pat maledisse gli avi e anche i jpeg e optò per lo scontro diretto: raggiunse Ted a mani nude, si schioccò le dita, i gomiti e il naso, fece la classica mossa alla Bruce Lee e ringhiò al nemico: “E’ giunta la tua ora…”
“Oh cazzo è vero!”, disse l’altro guardando l’orologio. “Grazie Pat! Se non chiamo mia moglie alle 9 precise mi fa delle scenate tremende. Ah se per caso pensi di farmi fuori col kung fu sappi che sono cintura nocciola”.
Mentre Pat interdetto si chiedeva a che livello di perizia corrispondesse il nocciola, l’altro gli tirò una gomitata nel plesso solare, una ginocchiata nel quadricipite femorale e un calcio in culo, che fa meno male ma è più umiliante e di solito fa più ridere.
Pat era sconfitto. Quella spia si era dimostrata troppo forte per lui e il travestimento ormai era saltato. Vi immaginate cosa sarebbe potuto accadere se fosse trapelata la notizia di un agente segreto maldiviano travestito da spia svedese che indaga sul turismo barese?
No?
Beh, insomma non sta bene, è evidente.
Pat dovette abbandonare la sala, il che era seccante perché aveva adocchiato il presidente di una municipalizzata e si era quasi al “ed è subito amore numero tre”. Così si ritrovò in strada, costretto ad allontanarsi dai fasti della politica locale e da quel governatore così fascinoso. Per le vie del centro era tutto un pullulare di turismo: c’era chi faceva shopping, chi giocava a racchettoni, chi si sdraiava a prendere il sole in mezzo alla via principale. Pat si perse, rapito dai mille colori di tutto quel mondo riunito a Bari, un mondo che ballava pizzica, samba, mambo, terno, quaterna, valzer e rock’n’roll. C’erano dervishi rotolanti, funamboli ammalianti e pagliacci esilaranti.
Anche ubriachi rantolanti, va detto.
Pat, con la zazzera dorata carezzata dalla brezza marina, osservava incredulo tutta quella bellezza. Era a Bari da soli dieci giorni ma era totalmente sconvolto.
Quelli furono infatti “i dieci giorni che sconvolsero il biondo”.
Ora finalmente aveva capito che c’era qualcosa di strano in quell’aria, qualcosa di magnetico. Non era la salsedine che giungeva dal mare, non era l’aroma dei cavalli che sfrigolavano sulle piastre e neanche un’eco lontana dell’Ilva di Taranto. Era il profumo indefinito del sole, quella sensazione balsamica di benessere che avvolgeva il viso di Pat col tepore dei suoi raggi, che diventava calore e scaldava, scaldava sempre più. A Pat si squagliò il cerone, poi la tintura ai capelli, infine il botox con cui si rifece il look anni prima.
Ora quell’uomo non sembrava più una spia del nord, era tornato finalmente sé stesso, un semplice maldiviano fra tanti, un uomo gentile che come tutti impazzisce, perché non c’era modo di sottrarsi a quella gioia collettiva.
Non c’era modo, in quella folle estate del 2015, di non essere tutti pazzi per Bari.

mercoledì 29 ottobre 2014

Klas Klas Ingesson!



A quei tempi ci si trovava all’una in baracchina.
Gli occhi stanchi per via delle notti alcoliche al Link, camminata curva e mani in tasca per darsi un tono, poche cicatrici ancora nelle anime di sbarbi.
Erano le fredde domeniche allo stadio, in una Bologna che sembra lontana mille anni e che ha i contorni sbiaditi, di ricordi che fa male persino nominare. Il campo no, quello resta vivido di colori anche negli angoli più nascosti della memoria.
E’ verde il prato del nostro Dall’Ara, ha l’erba soffice che pare una metafora di vita agiata, di cura e sorgenti e cibo buono che ti aspetta a casa. Sembra il prato dove giocano gli dei, quando tirano due calci su nei Campi Elisi.
I fumogeni esplodono in curva e le divise dei ragazzi sono accese come andassero incontro al futuro, a una Europa che sembra persino poter diventare nostra.
Sono rosso-blu, cazzo.
Noi cantiamo e ridiamo e fumiamo e siamo uguali a tutti gli altri, nel rito confortevole che ti fa appartenere all’identità collettiva.
Siamo tanti piccoli spartani con le pezze al culo.
Siamo persino fieri, a volte.
Siamo sballati, sempre.
In campo succedono le cose più belle che mai ci è capitato di vedere, quelle che di solito vedi solo in tv: gli scambi, le corse, i fraseggi, i dribbling, i gol.
Un sacco di gol, cazzo.
Ci sono i portieri che non si passano, i terzini che mordono, le ali che galoppano e i centravanti che tirano giù le porte.
Ci sono persino i fantasisti conosciuti in tutto il mondo, che quando ti trovi in Asia capita che trovi gente che ti invidia.
Loro.
A noi.
Lì in mezzo c’è un tizio che se provi a saltarlo ti asfalta anche i parenti. Ha le gambe come querce del nord, la schiena dritta come un giudice antimafia e due piedi raffinati come incudini turche.
Che non lo come sono le incudini turche ma sentivo il bisogno di scrivere una minchiata, per alleggerirmi un po' il cuore.
Ha un gran fisicaccio quello là, ha la stazza fisica ed emotiva per prenderci tutti quanti e farci guadare le acque tormentate della vita.
Ha un nome che appena lo senti è già un coro.
Quei colori non ci sono più.
Quelli che eravamo noi non ci sono più.
Lui non c’è più.
Però grazie, vecchio e grande Klas Klas Ingesson.

mercoledì 22 ottobre 2014

Il mio amico F.T.



Qualche anno fa, in un autunno della mia vita un po’ più freddo di questo, mi ritrovai chiuso in casa a percorrere le vie più remote della cinematografia mondiale. Accadde per caso: qualcuno mi regalò un dizionario tipo Mereghetti e io per gioco misi i pallini a fianco dei film dei registi, a fine volume, per scoprire di quale maestro avevo visto l’opera completa. Risultò che l’unico cineasta, vivo o morto, di cui non mi ero perso nulla era Sylvester Stallone. Mi parve il caso di intervenire. Munito di tessera del fido Balboni e di pomeriggi liberi per via di un lavoro serale, ricominciai a “metter pallini” sul dizionario. Qualche mese e alcune decine di film dopo tornò l’estate e io smisi di fingermi quel cinefilo che non ero. Oltre a tutte le storie e ai mondi e ai tempi che avevo visto,  tante immagini si erano fissate per sempre nella mia mente, col potere dell’imprinting che solo il cinema visto da ragazzini credevo potesse avere: il colore vivido e struggente delle foglie d’acero in “La congiura degli innocenti”, il sudore malvagio e giusto di Hank Quinlan in “Touch of evil”, le dita tatuate di odio e amore del reverendo Harry Powell, nell’oscuro e folgorante “La morte corre sul fiume”.
Poi c’era la Parigi in bianco e nero di Francois Truffaut. Non so dire perché mi colpì così tanto, forse perché quando pensi all’amore e ti chiedi dove metterlo, non può che venirti in mente Parigi; o forse perché quegli interni modesti e quelle fughe per strada somigliavano alla mia infanzia, di qualche anno più recente rispetto a quella di Antoine Doinel e masticata in una Bologna più piccola e provinciale. Ma quel bianco e nero sbiadito era lo stesso dei miei ricordi, quel mondo sospeso tra la guerra e il futuro era la giovinezza dei miei genitori, quegli sguardi innocenti di bambini erano tutta l’umanità che mi sentivo dentro.
Misi tanti pallini al mio nuovo amico F.T. Misi tutti i pallini che era possibile mettere, dalla fantascienza assassina di libri in “Farehneit 451” alle storie di cinema di “Effetto notte”, dalla vendetta nuziale di “La sposa in nero” alle gambe delle donne che come compassi “misurano il globo terrestre in tutte le direzioni”, ne “L’uomo che amava le donne”.
E’ morto da 30 anni F.T. 
Io nel frattempo ho messo altri pallini e continuo a non fingermi quel cinefilo che non sono. Ma anche in quel poco che so, riconosco che quello sguardo al cinema, umano e confortevole come una carezza sul capo, da almeno 30 anni non c’è più.

martedì 21 ottobre 2014

L’amore che va via



Io non lo so come è fatto l’amore che va via. Non so se somigli a un gabbiano che scappa sul mare, a una nuvola che si scioglie al sole o a un treno che parte il mattino presto, da un grigio autunno di Gare de Lyon.
Non so che faccia ha, questo amore che va via, ma so che ha gli occhi rossi del mio pianto acerbo, di fazzolettini nascosti sotto il cuscino e di parole trattenute, per sembrar diversi da sé.
Ha il colore rosso della paura, del sangue e del tramonto che ti reca in dono la notte, nera puttana dei tuoi tarli amari. Ha le mani capienti, l’amore che va via, perché porta con sé tutto il mondo che ti circonda, lo sevizia e lo maltratta e lo getta in un burrone, cupo burrone ripieno di stracci, dove riesci a sfiorarlo solo con le unghie affilate dei ricordi. Ti lascia solo una carezza e un flagello, per crederti aggraziato mentre ti sputi addosso le tue colpe.
Come vorrei smettere di guardarlo, questo amore che va via, pallido riflesso marcio dell’amore che arriva. Come vorrei tornare ad essere me stesso, ad essere noi stessi, e dirsi che non importa che faccia ha, sto maledetto amore che va via, perché in fondo, tempo dopo tempo, lui è ancora qui.