mercoledì 29 ottobre 2014

Klas Klas Ingesson!



A quei tempi ci si trovava all’una in baracchina.
Gli occhi stanchi per via delle notti alcoliche al Link, camminata curva e mani in tasca per darsi un tono, poche cicatrici ancora nelle anime di sbarbi.
Erano le fredde domeniche allo stadio, in una Bologna che sembra lontana mille anni e che ha i contorni sbiaditi, di ricordi che fa male persino nominare. Il campo no, quello resta vivido di colori anche negli angoli più nascosti della memoria.
E’ verde il prato del nostro Dall’Ara, ha l’erba soffice che pare una metafora di vita agiata, di cura e sorgenti e cibo buono che ti aspetta a casa. Sembra il prato dove giocano gli dei, quando tirano due calci su nei Campi Elisi.
I fumogeni esplodono in curva e le divise dei ragazzi sono accese come andassero incontro al futuro, a una Europa che sembra persino poter diventare nostra.
Sono rosso-blu, cazzo.
Noi cantiamo e ridiamo e fumiamo e siamo uguali a tutti gli altri, nel rito confortevole che ti fa appartenere all’identità collettiva.
Siamo tanti piccoli spartani con le pezze al culo.
Siamo persino fieri, a volte.
Siamo sballati, sempre.
In campo succedono le cose più belle che mai ci è capitato di vedere, quelle che di solito vedi solo in tv: gli scambi, le corse, i fraseggi, i dribbling, i gol.
Un sacco di gol, cazzo.
Ci sono i portieri che non si passano, i terzini che mordono, le ali che galoppano e i centravanti che tirano giù le porte.
Ci sono persino i fantasisti conosciuti in tutto il mondo, che quando ti trovi in Asia capita che trovi gente che ti invidia.
Loro.
A noi.
Lì in mezzo c’è un tizio che se provi a saltarlo ti asfalta anche i parenti. Ha le gambe come querce del nord, la schiena dritta come un giudice antimafia e due piedi raffinati come incudini turche.
Che non lo come sono le incudini turche ma sentivo il bisogno di scrivere una minchiata, per alleggerirmi un po' il cuore.
Ha un gran fisicaccio quello là, ha la stazza fisica ed emotiva per prenderci tutti quanti e farci guadare le acque tormentate della vita.
Ha un nome che appena lo senti è già un coro.
Quei colori non ci sono più.
Quelli che eravamo noi non ci sono più.
Lui non c’è più.
Però grazie, vecchio e grande Klas Klas Ingesson.

mercoledì 22 ottobre 2014

Il mio amico F.T.



Qualche anno fa, in un autunno della mia vita un po’ più freddo di questo, mi ritrovai chiuso in casa a percorrere le vie più remote della cinematografia mondiale. Accadde per caso: qualcuno mi regalò un dizionario tipo Mereghetti e io per gioco misi i pallini a fianco dei film dei registi, a fine volume, per scoprire di quale maestro avevo visto l’opera completa. Risultò che l’unico cineasta, vivo o morto, di cui non mi ero perso nulla era Sylvester Stallone. Mi parve il caso di intervenire. Munito di tessera del fido Balboni e di pomeriggi liberi per via di un lavoro serale, ricominciai a “metter pallini” sul dizionario. Qualche mese e alcune decine di film dopo tornò l’estate e io smisi di fingermi quel cinefilo che non ero. Oltre a tutte le storie e ai mondi e ai tempi che avevo visto,  tante immagini si erano fissate per sempre nella mia mente, col potere dell’imprinting che solo il cinema visto da ragazzini credevo potesse avere: il colore vivido e struggente delle foglie d’acero in “La congiura degli innocenti”, il sudore malvagio e giusto di Hank Quinlan in “Touch of evil”, le dita tatuate di odio e amore del reverendo Harry Powell, nell’oscuro e folgorante “La morte corre sul fiume”.
Poi c’era la Parigi in bianco e nero di Francois Truffaut. Non so dire perché mi colpì così tanto, forse perché quando pensi all’amore e ti chiedi dove metterlo, non può che venirti in mente Parigi; o forse perché quegli interni modesti e quelle fughe per strada somigliavano alla mia infanzia, di qualche anno più recente rispetto a quella di Antoine Doinel e masticata in una Bologna più piccola e provinciale. Ma quel bianco e nero sbiadito era lo stesso dei miei ricordi, quel mondo sospeso tra la guerra e il futuro era la giovinezza dei miei genitori, quegli sguardi innocenti di bambini erano tutta l’umanità che mi sentivo dentro.
Misi tanti pallini al mio nuovo amico F.T. Misi tutti i pallini che era possibile mettere, dalla fantascienza assassina di libri in “Farehneit 451” alle storie di cinema di “Effetto notte”, dalla vendetta nuziale di “La sposa in nero” alle gambe delle donne che come compassi “misurano il globo terrestre in tutte le direzioni”, ne “L’uomo che amava le donne”.
E’ morto da 30 anni F.T. 
Io nel frattempo ho messo altri pallini e continuo a non fingermi quel cinefilo che non sono. Ma anche in quel poco che so, riconosco che quello sguardo al cinema, umano e confortevole come una carezza sul capo, da almeno 30 anni non c’è più.

martedì 21 ottobre 2014

L’amore che va via



Io non lo so come è fatto l’amore che va via. Non so se somigli a un gabbiano che scappa sul mare, a una nuvola che si scioglie al sole o a un treno che parte il mattino presto, da un grigio autunno di Gare de Lyon.
Non so che faccia ha, questo amore che va via, ma so che ha gli occhi rossi del mio pianto acerbo, di fazzolettini nascosti sotto il cuscino e di parole trattenute, per sembrar diversi da sé.
Ha il colore rosso della paura, del sangue e del tramonto che ti reca in dono la notte, nera puttana dei tuoi tarli amari. Ha le mani capienti, l’amore che va via, perché porta con sé tutto il mondo che ti circonda, lo sevizia e lo maltratta e lo getta in un burrone, cupo burrone ripieno di stracci, dove riesci a sfiorarlo solo con le unghie affilate dei ricordi. Ti lascia solo una carezza e un flagello, per crederti aggraziato mentre ti sputi addosso le tue colpe.
Come vorrei smettere di guardarlo, questo amore che va via, pallido riflesso marcio dell’amore che arriva. Come vorrei tornare ad essere me stesso, ad essere noi stessi, e dirsi che non importa che faccia ha, sto maledetto amore che va via, perché in fondo, tempo dopo tempo, lui è ancora qui.