Il giorno in cui
affrontai il Mont Ventoux c’era l’aria tersa che ha l’estate dopo i temporali. A
quel tempo la Francia era un’ospite gentile e i profumi di lavanda saturavano
la Provenza, dove il Tour riposava in attesa del gran giorno.
Io avevo una
paura fottuta. Davanti a noi c’era il mitico Ventoux, 1.912 metri capaci di
consacrare campioni e umiliare mezze tacche, ed io, Alfredo Soldati detto Citronella,
appartenevo alla seconda categoria. Ero stato convocato solo perché Baldi, buon
grimpeur e gran donnaiolo, si era fatto beccare dal nostro massaggiatore a
scalare le curve della moglie Ines. Dopo i massaggi che erano seguiti, Baldi
non avrebbe più scalato nulla, Ines era fuggita in Spagna e io ero alla Grand
Boucle, con venti minuti di ritardo in sei tappe e una fifa blu.
Avevo un solo
obiettivo: non finire fuori tempo massimo. Tornare a casa infatti sarebbe stato
peggio che pedalare su quelle pendenze feroci. Mio padre, con una cazzuola in
mano, mi avrebbe spiegato che a volte i sogni falliscono e quando ciò accade non
bisogna demoralizzarsi, ma capire che il pane si guadagna tirando su dei muri,
non credendosi Coppi.
Soltanto in un
angolo remoto del mio cuore, troppo nascosta per poterla sentire, resisteva la
favola del ciclista giunto dall’appennino bolognese, ignorante come una capra e
tenace come un mulo, che scatta in faccia alla miseria e taglia a braccia alzate
il traguardo della vita.
Favole, appunto.
Alle 10 la tappa
partì e io diedi la prima pedalata delle tante che quel giorno avrebbero
cambiato il mio futuro.
Nei primi
chilometri mi stupii di come il plotone affrontava quella tappa infernale. Si
scherzava per esorcizzare la paura, si cantava e si raccontavano aneddoti assurdi,
come quello sul grande Merckx che a sei anni, su una bici a rotelle, batté suo
padre in camion. La mia ammiraglia mi diede le consegne: finché c’era pianura
dovevo curare il capitano Fox, poi in salita potevo levarmi dalle balle e
mettermi a pregare un santo perché mi portasse al traguardo.
“Oppure fatti
eliminare, Citronella. Così abbiamo uno scroccone in meno in squadra”,
aggiunsero sghignazzando.
Canaglie.
Eppure stavo
bene. Avevo persino montato il 50-17, per raccontare un giorno ai miei figli
che il babbo, quello che tutti schernivano, sul Ventoux aveva menato quel rapporto
impossibile, anche solo per un metro. Mi sentivo come quando, ragazzo, mi
piazzavo fra i primi tre in tutte le gare: a volte secondo, spesso terzo…
No, non avevo
mai vinto una gara in vita mia. Ma ora non importava: mentre cantavo Paolo
Conte, il calore di luglio sfumava nell’umido dei boschi e la pancia di un
gruppo di ciclisti mi sembrava il posto più bello dove stare.
Poi lo vedemmo.
Al principio era
un contorno sfumato, poi prese la fisionomia di un grande cumulo di panna, riverso
su un mondo piatto che non voleva saperne di lui.
Era la Montagna
Calva.
Era il Ventoux.
In gruppo calò il
silenzio. I boschi svanirono, l’aria divenne torrida e nei visi fece capolino
il dolore per il nostro destino, di faticatori raminghi in caccia di gloria e di
un tozzo di pane.
Ero paralizzato.
Il terrore che quei 20 chilometri battuti dai venti suscitavano nelle viscere
era qualcosa di antico, di atavico, era il timbro esistenziale con cui tutti i
ciclisti dovevano fare i conti. Quella montagna era la nostra weltanschauung
e, come tale, sapeva trascendere il tempo.
Mi girai verso
un compagno e dissi: “Che vita di merda c’è toccata, eh Bresolin?!”, ma rimasi
di sasso. Bresolin non c’era più e al mio fianco, dentro una divisa celeste corrosa
dal tempo, c’era la figura segaligna di Fausto Coppi!
Prima che
riuscissi a proferire parola, lui disse: “Oggi si va oltre la leggenda,
Citronella. Oggi si corre dentro i sogni”. Poi sorrise, si alzò sui pedali e
cominciò a risalire il gruppo. Ero allibito: cosa cavolo ci faceva Coppi lì?
Perché mi parlava di sogni? E soprattutto, perché mi chiamava Citronella pure
lui??
Non sapevo che
pensare, quando vidi qualcosa di ancor più incredibile. Quello che pedalava in
maglia tricolore era Francesco Moser, quello col codino Fignon e ci scommetto
un centone che quello con la camera d’aria a tracolla e una bici che pareva una
moto era Costante Girardengo! Accidenti, ero finito dentro un delirio capace di
farmi perdere la ragione.
Scossi il capo
per tornare alla realtà e un tizio elegante come un lord mi passò, reggendo una
coppa di champagne gelata. Gesù santo protettore di tutti i cerchioni, era Jaques
Anquetil!
“Dove cavolo sono?”,
mi chiesi, “qui c’è il top del ciclismo di tutti i tempi, manca solo…”.
“Pardon monsieur”,
disse Eddie Merckx, sfilando rapido come un Frecciarossa.
Era troppo. Come
non bastasse il Ventoux, ero finito dentro un gruppo così leggendario che non esisteva
neppure nelle fantasie di De Zan. Una nullità come me non poteva reggere tutto
ciò, così decisi di scendere di bicicletta, magari per sempre, e buonanotte a tutti.
Appena poggiai
piede a terra, dal gruppo uno venne verso di me. Ormai la situazione era tale
che era impossibile non ci fosse pure lui; mi raggiunse, si sfregò un naso
triste come una salita e disse: “Non fa’ i bischero, Citronella. Come lo si fa
il Ventoux senza di te? Ovvia”.
C’era da
piangere. Ero pronto a ritirarmi, ma quella voce in fondo al cuore mi suggerì
che se Gino Bartali ti dice di non fare il bischero, tu non abbandoni il
ciclismo e ti dai all’edilizia, tu rimetti lo scarpino nel pedale, spingi più
forte che puoi e vai incontro al tuo destino.
Ovvia.
Tornando in
gruppo il ds mi comunicò le novità: Fox era sparito, il nuovo capitano era Van
Impe e io dovevo marcare Coppi.
“Se parte che
faccio, gli sparo?”, chiesi.
No, dovevo avvisarli
e un galoppino, piazzato lungo la salita, avrebbe steso un tappeto di puntine
che sgretolavano i tubolari e giustiziavano le fughe.
“E gli altri?”,
chiesi indicando quel ben di Dio fatto di Gaul e Poulidor e Bobet ed altri
ancora.
Il ds mi
tranquillizzò. Anquetil era stanco perché aveva fatto le ore piccole, pare con
Saronni e tre squinzie delle premiazioni. Erano solo voci di gruppo ma quel
mattino, guarda caso, Saronni si era ritirato e le modelle avevano ricevuto mazzi
di fiori. Indurain era sottotono, anche se portava la maglia gialla guadagnata
nella crono di Nancy, dove erano volati schiaffi per tutti. “Tu per capirci hai
preso 48 minuti”, mi disse il ds, “ed eri anche andato benino”.
Di Merckx non si
sapeva nulla: stava nascosto in gruppo con Hinault che non lo perdeva d’occhio e
Lemond che ci faceva i selfie insieme. Santa Brigida protettrice dei cambi
Shimano, dove cavolo ero finito?
Poi c’era uno
quasi dei miei tempi, posto che io abbia mai avuto un tempo mio nella vita. Era
il profeta della salita che avevamo tanto atteso, uno scricciolo di Romagna che
mi dava fastidio persino pronunciare, per l’invidia che sentivo quando scattava.
Era quello bravo,
quello bravo davvero.
Per finire,
c’era un manipolo di campioni pronti a tutto per vincere quella tappa impossibile:
Gimondi, Ocaña, Binda, Delgado, Kubler...
La strada
cominciò a salire. Non volava più una mosca, si stava tutti zitti, sguardo
basso e pedalare, perché quando le pendenze della vita si fanno dure siamo
tutti uguali: schiappe, gregari e campioni.
Io ero già pentito
di aver montato il 50, non sarei mai stato in grado di spingerlo e per lui avevo
rinunciato a un rapporto più tenero.
Maledetto
testone!
Poi, dopo un chilometro,
scattò Chiappucci. Era il gesto di un pazzo, avevamo davanti un’eternità, ma
quando vidi Indurain mettersi a tirare capii che veniva preso sul serio.
“Figurati se non
faceva il fenomeno”, sibilò Gianni Bugno.
Sotto la spinta
del navarro, l’andatura si fece sostenuta e qualcuno si staccò. Girardengo
gridava di dargli una bici normale, che son capaci tutti di fare i ganzi con 5
chili sotto il culo, ma il vero campione si vede quando tra le gambe ha uno
scassone che pesa come un trattore. Poi la sua voce si andò affievolendo, smarrita
dietro le curve di quel monte infinito. Al terzo chilometro il Diablo fu
ripreso. Meno male, pensai, ora l’andatura cala e…Non finii il pensiero che
scattò Charly Gaul. Ma cavolo, state sereni, c’è una vita davanti!
O almeno
speravo.
Mentre l’Angelo
della Montagna volava via, a tutti tornò in mente la sua impresa al Giro,
quando arrivò sul Bondone mezzo assiderato, solo nella tormenta, con otto
minuti sul secondo.
“Bischero, vai
tu?”, mi incoraggiò Bartali.
Ma dove vuoi che
vada, Gino, non vedi che sono al gancio? Poi scusa, t’immagini la telecronaca
di De Zan? “Ed ecco lo scatto di Gaul…ma c’è la risposta di Citronella!”. Si
può sentire una roba così?
“Giusto, vo’
io”, disse Ginettaccio. E piantò una fucilata secca come il Sahara. Quanta
forza in quelle cosce fatte di tronchi, quanta dignità nella schiena dritta, quanto
coraggio! Coppi rimase immobile, sembrava il dipinto di un’epoca lontana, cupo
e malinconico come un pugile suonato. Pensai che se fosse partito non avrei
avvisato nessuno, anzi gli avrei gridato di volare, di correre più forte della
malaria e dei pettegolezzi e della guerra che rubò il destino ai figli bastardi
del Novecento.
Poi Bartali riprese
Gaul, il gruppo si unì ed io ebbi almeno il tempo di bere. I pini di Aleppo,
che punteggiano la base della montagna, lasciarono strada alle roverelle, ai ginepri
e ai primi fusti di faggio. Le cinciallegre cantavano e una brezza da sud, sapida
di salsedine e profumata di mare, spirava lenta e pareva consolarci, sapendoci prossimi
alla violenza del mistral.
Ora tutti si fissavano,
timorosi l’uno dell’altro. A parte me, che temevo tutti e non ero temuto da
nessuno. Per un po’ proseguimmo così e pregai che sbucasse una moto della tv per
gridare hai visto? Hai visto babbo che lo so fare questo lavoro che è più che
un mestiere, diamine, è una dannazione?
Ma non arrivò
nessuno.
All’ottavo
chilometro si scatenò la bagarre. Poulidor scattò in faccia a Rominger, Binda
lo riprese, poi partì Roche, controllato da Magni; un attimo di fiato e via, la
stoccata di Gimondi, chiuso da Thevenet. Respiro, silenzio, paura…ed ecco
Koblet, il leggendario Falco Biondo, volare solo là davanti. Io guardavo dal
fondo quei fuochi d’artificio di classe sopraffina: i visi tirati, il sudore,
il clangore delle catene che scalavano i rocchetti. Ero spettatore non pagante
del più grande spettacolo del mondo. E restavo attaccato coi denti, con quel
maledetto 50 che mi fissava e mi sfidava: “Allora Citronella, mi metti o no?
Coraggio schiappa, coraggio!”. Ma io quel coraggio non l’avevo.
In testa al
plotone si mise Bugno, che alzò l’andatura e fece vittime eccellenti: Argentin,
Fignon, Van Impe, persino il grande Indurain.
Io no, io ero
ancora lì. Soffrivo come un animale ferito ma ero lì, con le gambe di marmo e
le spalle che oscillavano come un pendolo svizzero. Ero con loro mentre
ricordavo le corse che non avevo vinto, ero lì mentre ripensavo ai gregari che
nessuno aveva plaudito mai, ero in quel gruppo mentre gli alberi sparivano e la
montagna pelata ci buttava in faccia la sua verità.
Fu allora che
scattai.
Senza un motivo,
senza un perché. Scattai in faccia alle leggende e al mio futuro già scritto, carezzai
la mia incoscienza, inserii il 50 e spinsi più forte che potei. Mi sembrava di pigiare
mille tonnellate, come dovessi spostare il mondo intero. Gridai e soffrii e
piansi sudore, finché la catena si mosse, le ruote girarono e la bici scattò.
Feci subito il
vuoto.
La grande
nobiltà del ciclismo non si preoccupava di me, così presi in breve venti
secondi. L’ultima cosa che sentii fu il grido disperato del ds, portato via dal
mistral che cominciava a soffiare: “Citronella! Ma dove caz…vai?”
In Paradiso
capo, vado in Paradiso.
Attorno al
serpente d’asfalto che saliva c’era sempre più gente, assiepata a gridare la
passione di una vita. Nessuno sapeva chi ero ma tutti mi incitavano, perché la
storia del ciclista in fuga col talento di una scamorza scalda sempre i cuori.
E io quei cuori
volevo bruciarli.
Presi Koblet e
lo lasciai lì, continuando a macinare strada davanti a me. Via col rapporto più
duro, in piedi, rilanciare. Rapporto lento, seduto, respirare. Duro, spinta,
fatica. Lento, passo, fiato. Poi su in piedi, spingere, crederci, vola
Citronella, mena quel maledetto 50! Vola!!!
Quando finalmente
alzai gli occhi fui divorato dal terrore: la cima era lontanissima! Mancavano
10 chilometri, tutti con pendenze che avrebbero steso un camoscio e io, folle e
cretino, mi ero sognato di sbranarli da solo. Battendo Merckx, Coppi e
compagnia cantante. Mi girai, convinto che il plotone fosse già lì, pronto a divorarmi
e sputarmi in un burrone come un nocciolo di ciliegia.
Invece ero solo.
Ero in fuga sul
Ventoux ed ero solo.
Inspirai aria di
trionfo e mi rimisi a spingere, ma dopo pochi metri sentii i tifosi gridare
“Fausto! Fausto!” e mi dissi che se proprio doveva arrivare qualcuno, tanto
valeva fosse lui. Appena mi fu al fianco, mi disse: “Mi dai qualche cambio,
Citronella?”
“Con che forza,
Fausto?”, dissi io.
“Con quella
della miseria”, disse lui.
Così strinsi i
denti, raggranellai un po’ d’energia e cominciai a dare cambi al Campionissimo.
Eravamo due italiani alla conquista della Francia, gli artefici di uno smacco così
grande da punire i furti di Napoleone, gli sganassoni di Asterix e le testate
di Zidane.
Eravamo la
Vendetta.
Ma un chilometro
dopo ci raggiunse Hinault. Che pedalata sontuosa aveva il bretone, che classe, sembrava
un pavone! Coppi non si scompose, se lo sentiva che sarebbe arrivato. I due si fecero
un cenno, solo un gesto muto, che però non lasciava dubbi. Quei due, in
silenzio, si erano detti: “Dov’è Lui?”.
Lui, manco a dirlo, era il Cannibale.
Ecco dov’ero
finito! Ero dentro la Resa dei Conti, il luogo del mito dove si decideva chi era
il più grande di sempre! Ma che cavolo ci facevo io? Possibile che al comando
della tappa definitiva del Tour ci fosse un gregario ripescato e non…
“Pardon monsieur”,
disse il Frecciarossa belga arrivando da chissà dove.
Non si fermò,
non alzò lo sguardo, non pronunciò altro verbo. Si limitò a riversare sui
pedali tutta la sua furia infinita. Santa Costanza patrona dei cerchi in lega,
quanto pestava sui pedali Eddie Merckx!
Ed eccoci lì in
quattro, a un pugno di chilometri dalla vetta, in mezzo a una folla impazzita di
gioia: Coppi, Merckx, Hinault…e Citronella.
Il mistral soffiava
impetuoso, come per impedirci di proseguire, ma Merckx tirava dritto e gli
altri due non lo mollavano di un metro. Io mi staccai, mi riavvicinai, mi
staccai di nuovo, nel più classico degli elastici. Sentivo il fiato andarsene,
un dolore alle gambe atroce e il cuore che batteva a ritmo di jazz. Non spingevo
più il 50 e faticavo anche ad alzare gli occhi per guardare quello spettacolo:
Coppi scattava sulla destra e Hinault lo andava a prendere, poi Merckx
ricominciava a menare il suo passo, ma gli altri stavano lì ad azzannargli i
polpacci. Gli scatti si susseguivano nel tentativo, vano e disperato, di
scrollarsi di dosso le leggende altrui. Io mi accodai, pescando energie nel
pozzo buio delle mie umiliazioni. Poi, a tre chilometri dal traguardo, passammo
davanti alla lapide di Simpson e il vento sembrò tacere.
Hinault buttò
via l’ultima borraccia e guardò avido la mia, ma io gridai: “No! Non sono il
vostro gregario! Io sono Alfredo Soldati, detto Citronella, e vi faccio un
mazzo così!”. Poi mi rimisi giù, in silenzio, a pedalare. Mi sembrò di sentirli
ridere.
A 2500 metri
dall’arrivo ripartì la danza. Attacchi, cuciture, sguardi, sfuriate,
surplace…tutto il repertorio tecnico di tre guerrieri della bici al massimo del
loro splendore. Poi rallentarono, li vidi fissare il vuoto e li immaginai
divorati dal dubbio: se erano tutti e tre invincibili, come potevano battersi a
vicenda?
Passammo
l’ultimo chilometro: il gruppo era lontano e il mistral soffiava incessante, pareva
lo sputo in faccia di Dio. Facevamo i 7 all’ora, a zig-zag, cercando di
nasconderci l’uno dietro l’altro.
Eravamo finiti.
Non c’era più
nulla nei muscoli, niente nelle menti, il vuoto nei nostri cuori. Fu allora che
decisero di far vincere me. Incapaci di sciogliere la sfida eterna, vollero
eternare il sudore di chi era riuscito a danzare con loro. Si scansarono,
silenziosi, e mentre il vento si placava per accogliermi nel suo ventre, io li passai,
con gli occhi chiusi, pronto a entrare nel Mito.
Tutti applaudirono
quella scena d’altri tempi, io mi alzai sui pedali e sorrisi mentre cavalcavo
tra due ali di folla, sorrisi mentre gridavo di gioia, sorrisi mentre piangevo
fatica. Ora mi vedi papà? Lo vedi il tuo muratore mancato come ha corso? Lo
vedi mentre taglia vincente il traguardo della glor…
Mi fermo.
A due passi dal
traguardo.
Sguardo fisso.
Gente che grida.
Bandiere.
Tripudio.
Silenzio.
Dentro me.
No, cavolo. Così
no. Sono il più scarso dei gregari, preso dalla strada e buttato nella
leggenda, ma non mi va di vincere così. Non mi va che il mio destino sia deciso
dai granduchi di tutte le salite, dai principi della Grand Boucle, dagli
imperatori del Tour. Non mi va di avere ciò che non è mio.
Un gigantesco
“ohh” scosse la folla, quei tre che ormai sentivo amici mi guardarono senza
capire, ma io girai la bicicletta, dissi “Pardon Monsieur” e sorridendo inspirai
l’aria pulita che esiste solo sul Ventoux.
Inserii per
l’ultima volta il 50.
E tornai indietro.
Oggi, mentre
scrivo queste righe intinte nell’epica, sono un uomo diverso. Sei anni son
passati da quella corsa incredibile e io ancora non ho capito se la vissi
veramente o se fu un delirio dovuto alla fatica. Ma a mio figlio non importa, a
lui basta sapere che suo padre è uno che ha sfidato il drago e che, se anche
non ha vinto, di sicuro non ha perso.
Perché poi, a
pensarci bene, nella vita ciò che conta non è vincere o perdere.
Nella vita, ciò
che conta è saper spingere il 50.
Oggi, mentre mi
alzo per andare in cantiere a tirar su dei muri, sono un uomo felice.
Quando arriva
luglio mi siedo in poltrona, stappo una birra, e guardo il Tour.
Solo una cosa mi
manca di quel tempo.
Mi manca tanto.
E’ il fatto,
inevitabile quanto amaro, che nella mia vita, oggi, Citronella non esiste più.