martedì 1 dicembre 2015

Quel giorno sul Ventoux



Il giorno in cui affrontai il Mont Ventoux c’era l’aria tersa che ha l’estate dopo i temporali. A quel tempo la Francia era un’ospite gentile e i profumi di lavanda saturavano la Provenza, dove il Tour riposava in attesa del gran giorno. 
Io avevo una paura fottuta. Davanti a noi c’era il mitico Ventoux, 1.912 metri capaci di consacrare campioni e umiliare mezze tacche, ed io, Alfredo Soldati detto Citronella, appartenevo alla seconda categoria. Ero stato convocato solo perché Baldi, buon grimpeur e gran donnaiolo, si era fatto beccare dal nostro massaggiatore a scalare le curve della moglie Ines. Dopo i massaggi che erano seguiti, Baldi non avrebbe più scalato nulla, Ines era fuggita in Spagna e io ero alla Grand Boucle, con venti minuti di ritardo in sei tappe e una fifa blu.
Avevo un solo obiettivo: non finire fuori tempo massimo. Tornare a casa infatti sarebbe stato peggio che pedalare su quelle pendenze feroci. Mio padre, con una cazzuola in mano, mi avrebbe spiegato che a volte i sogni falliscono e quando ciò accade non bisogna demoralizzarsi, ma capire che il pane si guadagna tirando su dei muri, non credendosi Coppi.
Soltanto in un angolo remoto del mio cuore, troppo nascosta per poterla sentire, resisteva la favola del ciclista giunto dall’appennino bolognese, ignorante come una capra e tenace come un mulo, che scatta in faccia alla miseria e taglia a braccia alzate il traguardo della vita.
Favole, appunto.
Alle 10 la tappa partì e io diedi la prima pedalata delle tante che quel giorno avrebbero cambiato il mio futuro.
Nei primi chilometri mi stupii di come il plotone affrontava quella tappa infernale. Si scherzava per esorcizzare la paura, si cantava e si raccontavano aneddoti assurdi, come quello sul grande Merckx che a sei anni, su una bici a rotelle, batté suo padre in camion. La mia ammiraglia mi diede le consegne: finché c’era pianura dovevo curare il capitano Fox, poi in salita potevo levarmi dalle balle e mettermi a pregare un santo perché mi portasse al traguardo.
“Oppure fatti eliminare, Citronella. Così abbiamo uno scroccone in meno in squadra”, aggiunsero sghignazzando.
Canaglie.
Eppure stavo bene. Avevo persino montato il 50-17, per raccontare un giorno ai miei figli che il babbo, quello che tutti schernivano, sul Ventoux aveva menato quel rapporto impossibile, anche solo per un metro. Mi sentivo come quando, ragazzo, mi piazzavo fra i primi tre in tutte le gare: a volte secondo, spesso terzo…
No, non avevo mai vinto una gara in vita mia. Ma ora non importava: mentre cantavo Paolo Conte, il calore di luglio sfumava nell’umido dei boschi e la pancia di un gruppo di ciclisti mi sembrava il posto più bello dove stare.
Poi lo vedemmo.
Al principio era un contorno sfumato, poi prese la fisionomia di un grande cumulo di panna, riverso su un mondo piatto che non voleva saperne di lui.
Era la Montagna Calva.
Era il Ventoux.
In gruppo calò il silenzio. I boschi svanirono, l’aria divenne torrida e nei visi fece capolino il dolore per il nostro destino, di faticatori raminghi in caccia di gloria e di un tozzo di pane.
Ero paralizzato. Il terrore che quei 20 chilometri battuti dai venti suscitavano nelle viscere era qualcosa di antico, di atavico, era il timbro esistenziale con cui tutti i ciclisti dovevano fare i conti. Quella montagna era la nostra weltanschauung e, come tale, sapeva trascendere il tempo.
Mi girai verso un compagno e dissi: “Che vita di merda c’è toccata, eh Bresolin?!”, ma rimasi di sasso. Bresolin non c’era più e al mio fianco, dentro una divisa celeste corrosa dal tempo, c’era la figura segaligna di Fausto Coppi!
Prima che riuscissi a proferire parola, lui disse: “Oggi si va oltre la leggenda, Citronella. Oggi si corre dentro i sogni”. Poi sorrise, si alzò sui pedali e cominciò a risalire il gruppo. Ero allibito: cosa cavolo ci faceva Coppi lì? Perché mi parlava di sogni? E soprattutto, perché mi chiamava Citronella pure lui??
Non sapevo che pensare, quando vidi qualcosa di ancor più incredibile. Quello che pedalava in maglia tricolore era Francesco Moser, quello col codino Fignon e ci scommetto un centone che quello con la camera d’aria a tracolla e una bici che pareva una moto era Costante Girardengo! Accidenti, ero finito dentro un delirio capace di farmi perdere la ragione.
Scossi il capo per tornare alla realtà e un tizio elegante come un lord mi passò, reggendo una coppa di champagne gelata. Gesù santo protettore di tutti i cerchioni, era Jaques Anquetil!
“Dove cavolo sono?”, mi chiesi, “qui c’è il top del ciclismo di tutti i tempi, manca solo…”.
“Pardon monsieur”, disse Eddie Merckx, sfilando rapido come un Frecciarossa.
Era troppo. Come non bastasse il Ventoux, ero finito dentro un gruppo così leggendario che non esisteva neppure nelle fantasie di De Zan. Una nullità come me non poteva reggere tutto ciò, così decisi di scendere di bicicletta, magari per sempre, e buonanotte a tutti.
Appena poggiai piede a terra, dal gruppo uno venne verso di me. Ormai la situazione era tale che era impossibile non ci fosse pure lui; mi raggiunse, si sfregò un naso triste come una salita e disse: “Non fa’ i bischero, Citronella. Come lo si fa il Ventoux senza di te? Ovvia”.
C’era da piangere. Ero pronto a ritirarmi, ma quella voce in fondo al cuore mi suggerì che se Gino Bartali ti dice di non fare il bischero, tu non abbandoni il ciclismo e ti dai all’edilizia, tu rimetti lo scarpino nel pedale, spingi più forte che puoi e vai incontro al tuo destino.
Ovvia.
Tornando in gruppo il ds mi comunicò le novità: Fox era sparito, il nuovo capitano era Van Impe e io dovevo marcare Coppi.
“Se parte che faccio, gli sparo?”, chiesi.
No, dovevo avvisarli e un galoppino, piazzato lungo la salita, avrebbe steso un tappeto di puntine che sgretolavano i tubolari e giustiziavano le fughe.
“E gli altri?”, chiesi indicando quel ben di Dio fatto di Gaul e Poulidor e Bobet ed altri ancora.
Il ds mi tranquillizzò. Anquetil era stanco perché aveva fatto le ore piccole, pare con Saronni e tre squinzie delle premiazioni. Erano solo voci di gruppo ma quel mattino, guarda caso, Saronni si era ritirato e le modelle avevano ricevuto mazzi di fiori. Indurain era sottotono, anche se portava la maglia gialla guadagnata nella crono di Nancy, dove erano volati schiaffi per tutti. “Tu per capirci hai preso 48 minuti”, mi disse il ds, “ed eri anche andato benino”.
Di Merckx non si sapeva nulla: stava nascosto in gruppo con Hinault che non lo perdeva d’occhio e Lemond che ci faceva i selfie insieme. Santa Brigida protettrice dei cambi Shimano, dove cavolo ero finito?
Poi c’era uno quasi dei miei tempi, posto che io abbia mai avuto un tempo mio nella vita. Era il profeta della salita che avevamo tanto atteso, uno scricciolo di Romagna che mi dava fastidio persino pronunciare, per l’invidia che sentivo quando scattava.
Era quello bravo, quello bravo davvero.
Per finire, c’era un manipolo di campioni pronti a tutto per vincere quella tappa impossibile: Gimondi, Ocaña, Binda, Delgado, Kubler...
La strada cominciò a salire. Non volava più una mosca, si stava tutti zitti, sguardo basso e pedalare, perché quando le pendenze della vita si fanno dure siamo tutti uguali: schiappe, gregari e campioni.
Io ero già pentito di aver montato il 50, non sarei mai stato in grado di spingerlo e per lui avevo rinunciato a un rapporto più tenero.
Maledetto testone!
Poi, dopo un chilometro, scattò Chiappucci. Era il gesto di un pazzo, avevamo davanti un’eternità, ma quando vidi Indurain mettersi a tirare capii che veniva preso sul serio.
“Figurati se non faceva il fenomeno”, sibilò Gianni Bugno.
Sotto la spinta del navarro, l’andatura si fece sostenuta e qualcuno si staccò. Girardengo gridava di dargli una bici normale, che son capaci tutti di fare i ganzi con 5 chili sotto il culo, ma il vero campione si vede quando tra le gambe ha uno scassone che pesa come un trattore. Poi la sua voce si andò affievolendo, smarrita dietro le curve di quel monte infinito. Al terzo chilometro il Diablo fu ripreso. Meno male, pensai, ora l’andatura cala e…Non finii il pensiero che scattò Charly Gaul. Ma cavolo, state sereni, c’è una vita davanti!
O almeno speravo.
Mentre l’Angelo della Montagna volava via, a tutti tornò in mente la sua impresa al Giro, quando arrivò sul Bondone mezzo assiderato, solo nella tormenta, con otto minuti sul secondo.
“Bischero, vai tu?”, mi incoraggiò Bartali.
Ma dove vuoi che vada, Gino, non vedi che sono al gancio? Poi scusa, t’immagini la telecronaca di De Zan? “Ed ecco lo scatto di Gaul…ma c’è la risposta di Citronella!”. Si può sentire una roba così?
“Giusto, vo’ io”, disse Ginettaccio. E piantò una fucilata secca come il Sahara. Quanta forza in quelle cosce fatte di tronchi, quanta dignità nella schiena dritta, quanto coraggio! Coppi rimase immobile, sembrava il dipinto di un’epoca lontana, cupo e malinconico come un pugile suonato. Pensai che se fosse partito non avrei avvisato nessuno, anzi gli avrei gridato di volare, di correre più forte della malaria e dei pettegolezzi e della guerra che rubò il destino ai figli bastardi del Novecento.
Poi Bartali riprese Gaul, il gruppo si unì ed io ebbi almeno il tempo di bere. I pini di Aleppo, che punteggiano la base della montagna, lasciarono strada alle roverelle, ai ginepri e ai primi fusti di faggio. Le cinciallegre cantavano e una brezza da sud, sapida di salsedine e profumata di mare, spirava lenta e pareva consolarci, sapendoci prossimi alla violenza del mistral.
Ora tutti si fissavano, timorosi l’uno dell’altro. A parte me, che temevo tutti e non ero temuto da nessuno. Per un po’ proseguimmo così e pregai che sbucasse una moto della tv per gridare hai visto? Hai visto babbo che lo so fare questo lavoro che è più che un mestiere, diamine, è una dannazione?
Ma non arrivò nessuno.
All’ottavo chilometro si scatenò la bagarre. Poulidor scattò in faccia a Rominger, Binda lo riprese, poi partì Roche, controllato da Magni; un attimo di fiato e via, la stoccata di Gimondi, chiuso da Thevenet. Respiro, silenzio, paura…ed ecco Koblet, il leggendario Falco Biondo, volare solo là davanti. Io guardavo dal fondo quei fuochi d’artificio di classe sopraffina: i visi tirati, il sudore, il clangore delle catene che scalavano i rocchetti. Ero spettatore non pagante del più grande spettacolo del mondo. E restavo attaccato coi denti, con quel maledetto 50 che mi fissava e mi sfidava: “Allora Citronella, mi metti o no? Coraggio schiappa, coraggio!”. Ma io quel coraggio non l’avevo.
In testa al plotone si mise Bugno, che alzò l’andatura e fece vittime eccellenti: Argentin, Fignon, Van Impe, persino il grande Indurain.
Io no, io ero ancora lì. Soffrivo come un animale ferito ma ero lì, con le gambe di marmo e le spalle che oscillavano come un pendolo svizzero. Ero con loro mentre ricordavo le corse che non avevo vinto, ero lì mentre ripensavo ai gregari che nessuno aveva plaudito mai, ero in quel gruppo mentre gli alberi sparivano e la montagna pelata ci buttava in faccia la sua verità.
Fu allora che scattai.
Senza un motivo, senza un perché. Scattai in faccia alle leggende e al mio futuro già scritto, carezzai la mia incoscienza, inserii il 50 e spinsi più forte che potei. Mi sembrava di pigiare mille tonnellate, come dovessi spostare il mondo intero. Gridai e soffrii e piansi sudore, finché la catena si mosse, le ruote girarono e la bici scattò.
Feci subito il vuoto.
La grande nobiltà del ciclismo non si preoccupava di me, così presi in breve venti secondi. L’ultima cosa che sentii fu il grido disperato del ds, portato via dal mistral che cominciava a soffiare: “Citronella! Ma dove caz…vai?”
In Paradiso capo, vado in Paradiso.
Attorno al serpente d’asfalto che saliva c’era sempre più gente, assiepata a gridare la passione di una vita. Nessuno sapeva chi ero ma tutti mi incitavano, perché la storia del ciclista in fuga col talento di una scamorza scalda sempre i cuori.
E io quei cuori volevo bruciarli.
Presi Koblet e lo lasciai lì, continuando a macinare strada davanti a me. Via col rapporto più duro, in piedi, rilanciare. Rapporto lento, seduto, respirare. Duro, spinta, fatica. Lento, passo, fiato. Poi su in piedi, spingere, crederci, vola Citronella, mena quel maledetto 50! Vola!!!
Quando finalmente alzai gli occhi fui divorato dal terrore: la cima era lontanissima! Mancavano 10 chilometri, tutti con pendenze che avrebbero steso un camoscio e io, folle e cretino, mi ero sognato di sbranarli da solo. Battendo Merckx, Coppi e compagnia cantante. Mi girai, convinto che il plotone fosse già lì, pronto a divorarmi e sputarmi in un burrone come un nocciolo di ciliegia.
Invece ero solo.
Ero in fuga sul Ventoux ed ero solo.
Inspirai aria di trionfo e mi rimisi a spingere, ma dopo pochi metri sentii i tifosi gridare “Fausto! Fausto!” e mi dissi che se proprio doveva arrivare qualcuno, tanto valeva fosse lui. Appena mi fu al fianco, mi disse: “Mi dai qualche cambio, Citronella?”
“Con che forza, Fausto?”, dissi io.
“Con quella della miseria”, disse lui.
Così strinsi i denti, raggranellai un po’ d’energia e cominciai a dare cambi al Campionissimo. Eravamo due italiani alla conquista della Francia, gli artefici di uno smacco così grande da punire i furti di Napoleone, gli sganassoni di Asterix e le testate di Zidane.
Eravamo la Vendetta.
Ma un chilometro dopo ci raggiunse Hinault. Che pedalata sontuosa aveva il bretone, che classe, sembrava un pavone! Coppi non si scompose, se lo sentiva che sarebbe arrivato. I due si fecero un cenno, solo un gesto muto, che però non lasciava dubbi. Quei due, in silenzio, si erano detti: “Dov’è Lui?”.
Lui, manco a dirlo, era il Cannibale.
Ecco dov’ero finito! Ero dentro la Resa dei Conti, il luogo del mito dove si decideva chi era il più grande di sempre! Ma che cavolo ci facevo io? Possibile che al comando della tappa definitiva del Tour ci fosse un gregario ripescato e non…
“Pardon monsieur”, disse il Frecciarossa belga arrivando da chissà dove.
Non si fermò, non alzò lo sguardo, non pronunciò altro verbo. Si limitò a riversare sui pedali tutta la sua furia infinita. Santa Costanza patrona dei cerchi in lega, quanto pestava sui pedali Eddie Merckx!
Ed eccoci lì in quattro, a un pugno di chilometri dalla vetta, in mezzo a una folla impazzita di gioia: Coppi, Merckx, Hinault…e Citronella.
Il mistral soffiava impetuoso, come per impedirci di proseguire, ma Merckx tirava dritto e gli altri due non lo mollavano di un metro. Io mi staccai, mi riavvicinai, mi staccai di nuovo, nel più classico degli elastici. Sentivo il fiato andarsene, un dolore alle gambe atroce e il cuore che batteva a ritmo di jazz. Non spingevo più il 50 e faticavo anche ad alzare gli occhi per guardare quello spettacolo: Coppi scattava sulla destra e Hinault lo andava a prendere, poi Merckx ricominciava a menare il suo passo, ma gli altri stavano lì ad azzannargli i polpacci. Gli scatti si susseguivano nel tentativo, vano e disperato, di scrollarsi di dosso le leggende altrui. Io mi accodai, pescando energie nel pozzo buio delle mie umiliazioni. Poi, a tre chilometri dal traguardo, passammo davanti alla lapide di Simpson e il vento sembrò tacere.
Hinault buttò via l’ultima borraccia e guardò avido la mia, ma io gridai: “No! Non sono il vostro gregario! Io sono Alfredo Soldati, detto Citronella, e vi faccio un mazzo così!”. Poi mi rimisi giù, in silenzio, a pedalare. Mi sembrò di sentirli ridere.
A 2500 metri dall’arrivo ripartì la danza. Attacchi, cuciture, sguardi, sfuriate, surplace…tutto il repertorio tecnico di tre guerrieri della bici al massimo del loro splendore. Poi rallentarono, li vidi fissare il vuoto e li immaginai divorati dal dubbio: se erano tutti e tre invincibili, come potevano battersi a vicenda?
Passammo l’ultimo chilometro: il gruppo era lontano e il mistral soffiava incessante, pareva lo sputo in faccia di Dio. Facevamo i 7 all’ora, a zig-zag, cercando di nasconderci l’uno dietro l’altro.
Eravamo finiti.
Non c’era più nulla nei muscoli, niente nelle menti, il vuoto nei nostri cuori. Fu allora che decisero di far vincere me. Incapaci di sciogliere la sfida eterna, vollero eternare il sudore di chi era riuscito a danzare con loro. Si scansarono, silenziosi, e mentre il vento si placava per accogliermi nel suo ventre, io li passai, con gli occhi chiusi, pronto a entrare nel Mito.
Tutti applaudirono quella scena d’altri tempi, io mi alzai sui pedali e sorrisi mentre cavalcavo tra due ali di folla, sorrisi mentre gridavo di gioia, sorrisi mentre piangevo fatica. Ora mi vedi papà? Lo vedi il tuo muratore mancato come ha corso? Lo vedi mentre taglia vincente il traguardo della glor…
Mi fermo.
A due passi dal traguardo.
Sguardo fisso.
Gente che grida.
Bandiere.
Tripudio.
Silenzio.
Dentro me.
No, cavolo. Così no. Sono il più scarso dei gregari, preso dalla strada e buttato nella leggenda, ma non mi va di vincere così. Non mi va che il mio destino sia deciso dai granduchi di tutte le salite, dai principi della Grand Boucle, dagli imperatori del Tour. Non mi va di avere ciò che non è mio.
Un gigantesco “ohh” scosse la folla, quei tre che ormai sentivo amici mi guardarono senza capire, ma io girai la bicicletta, dissi “Pardon Monsieur” e sorridendo inspirai l’aria pulita che esiste solo sul Ventoux.
Inserii per l’ultima volta il 50.
E tornai indietro.
Oggi, mentre scrivo queste righe intinte nell’epica, sono un uomo diverso. Sei anni son passati da quella corsa incredibile e io ancora non ho capito se la vissi veramente o se fu un delirio dovuto alla fatica. Ma a mio figlio non importa, a lui basta sapere che suo padre è uno che ha sfidato il drago e che, se anche non ha vinto, di sicuro non ha perso.
Perché poi, a pensarci bene, nella vita ciò che conta non è vincere o perdere.
Nella vita, ciò che conta è saper spingere il 50.
Oggi, mentre mi alzo per andare in cantiere a tirar su dei muri, sono un uomo felice.
Quando arriva luglio mi siedo in poltrona, stappo una birra, e guardo il Tour.
Solo una cosa mi manca di quel tempo.
Mi manca tanto.
E’ il fatto, inevitabile quanto amaro, che nella mia vita, oggi, Citronella non esiste più.

mercoledì 18 novembre 2015

Dell'esibizione del lutto


Continuo a mal sopportare questa retorica indossata da tanti in queste luttuose occasioni. La retorica tardo internazionalista e paleo-cristiana che racconta che i morti son tutti uguali. Non è vero. Il dispiacere per la perdita di vite umane dipende dalla nostra distanza emotiva dal lutto. E’ un fatto di una banalità e di una ovvietà sconcertante, se solo si pensasse ai lutti in famiglia, eppure ogni volta che muore qualcuno, si parli di singoli o di moltitudini, sentiamo levarsi la pletora degli indignati che dicono “però per quelli là non avete sofferto così”.
E’ vero.
Confesso.
Per quelli là non ho sofferto così.
E neanche voi.
O forse volete dirmi, amici della mia città, che 85 morti sconosciuti in Zimbabwe vi toccano quanto 85 morti sconosciuti alla stazione di Bologna?
Volete raccontarmi che i morti del terremoto dell’Aquila vi amareggiano quanto quelli di un terremoto in Cina?
Volete davvero negare che i morti nelle strade di Parigi, laddove siamo stati tutti e vi abbiamo amato e riso e bevuto buon vino, sono diversi da quelli di Beirut?
Quello che non capisco è: perché credete che ammettere questo fatto celi un razzismo di fondo, una svalutazione delle vite lontane, invece di raccontare SOLTANTO una vicinanza con anime affini?
La stessa cosa accade ogni volta che muore una persona famosa. La gente racconta sui social il proprio dolore e s’alza forte il grido “quando muore un operaio non succede tutto sto casino!”
No, non succede.
E non succede neanche quando muore un imprenditore.
Un disoccupato.
Un giardiniere.
Un bidello.
Un barista.
Un giocatore di bridge.
Non è solo l’uniformarsi a un costume benvoluto dalla società, e non è il disinteresse intimo verso problematiche sociali.
E’ che la persona famosa ci ha regalato emozioni che hanno contribuito a fare di noi ciò che siamo.
La persona sconosciuta no.
La persona nota ci è emotivamente vicina.
La persona altra no.
Il mondo intimo di ciascuno di noi, che vi piaccia o no, è diviso in noi e gli altri.
Che non sono peggio di noi, che non sono meno di noi.
Sono solo gli altri.
Questo non significa che non dobbiamo indignarci o incazzarci per le morti assurde sul lavoro.
Dobbiamo protestare e porvi rimedio mediante LA POLITICA.
Intesa in senso primitivo e genuino.
Ma significa che non mi dovete frantumare i coglioni ogni volta che esprimo un mio sentimento intimo e mi sento scosso.
Perchè per una volta, araldi avvelenati del pensiero negativo, potreste provare a credere che ciò che sembra, semplicemente, è.
Il dolore è dolore.
La vicinanza è vicinanza.
I cazzi miei, santa banana, son cazzi miei.

lunedì 9 novembre 2015

Chi siamo noi?



C’è stato gran dibattito ieri sul fatto se fosse giusto o meno scendere in strada a contestare l’infestazione fascio/leghista. E’ un dibattito interessante, perché, tra le varie posizioni, possiamo forse riconoscere che tipo di antifascisti siamo noi.
Antifascista Militante. Gruppo nutrito e variegato, comprende molti reduci del ’68, i reduci del ’77 che non divennero socialisti e il 98% degli universitari iscritti alle facoltà umanistiche, di cui però un 30% ha preso una ciucca devastante la sera prima e quindi sta a letto a riflettere sul sol dell’avvenire. Per l’Antifascista Militante il termine “fascismo” è applicabile a una galassia infinita che va dal Duce alla Meloni al caporeparto in fabbrica fino alla signora Frabboni, che abita al piano di sotto e bussa con la scopa tutte le volte che lui ascolta a palla la Bandabardò.  Appena c’è puzza di ventennio, l’A.M. scende in piazza e canta slogan che celebrano l’imminente trionfo del proletariato. Poi i comportamenti si diversificano per fasce di età: il reduce con barba e spilla di Democrazia Proletaria ricorda con nostalgia i cortei di quando si era giovani e la politica era il centro di tutto, invece il giovane si dà da fare per raggiungere l’obiettivo politico che poi da reduci sarà ricordato con nostalgia: scopare.
Antifascista Militante Pirla. Si distingue dal gruppo di cui sopra perché è quello che sta in prima fila e dà i calcetti ai celerini, che rispondono prendendolo a mazzate. Chissà perché.
Antifascista Millantante. E’ il classico tipo del “vorrei ma non posso”. E’ quello che accompagna una spinta ideale degna di Gramsci con una pratica quotidiana degna di Topo Gigio. L’A.MLT. conquisterebbe Santa Clara da solo, sfidando i perigli della jungla e squartando a morsi l’intero esercito di Batista, se solo non fosse costretto a letto da un febbrone a 37,2.
L’A.MLT. è anche detto “L’Altruista”, perchè ha sempre da fare altro. Ha un’agenda talmente densa di impegni che in confronto il Presidente della Repubblica è un fancazzista. La sera prima del giorno X, indignato nell’imminenza dell’ora fatale, l’Altruista si distingue per il vigore dell’eloquio. Dice: “Bisogna impedire a quei maledetti stronzi di prendere la nostra città!! Perché noi siamo medaglia d’oro della Resistenza e loro non devono passare, cazzo! NO PASARAN!!!”
 “Quindi vieni?”
 “Macchè. Ho il pranzo dai suoceri e mia moglie se non vado m’incula”
Così, alle 12,30, mentre l’Antifascista Militante affronta con afflato epico i manganelli della celere, l’Antifascista Millantante affronta impavido e sempiterno un piatto di tagliatelle.
Il Democratico. Ha una fiducia smodata nel funzionamento del sistema rappresentativo. Il concetto di rappresentanza è il motore della storia e l’urna ne è il braccio armato. Nutre un rispetto sconfinato per il denaro, dato che tutto sembra riconducibile al fatto che lui paga un botto di tasse e quindi vediamo di non rompergli tanto i coglioni,  e a volte rasenta l’ignavia, perché ama delegare non solo le azioni politiche, ma anche le opinioni (a parte quelle relative allo sport, tema su cui il concetto di delega va a ramengo). E’ talmente ligio al comandamento del “non occuparsi di ciò che compete ad altri” che a volte non si rende conto che qualcun altro si sta occupando di ciò che compete a lui. Per esempio la soddisfazione sessuale di sua moglie.
Il Mass Mediologo. E’ governato dal sacro fuoco dell’utilitarismo e si muove in base alla previsione di ciò che diranno i quotidiani il giorno dopo. Ha la testa piena di titoli a caratteri cubitali, così alle 10 di domenica mattina si prefigura un “La sinistra antagonista mette a soqquadro la città”, e decide di non servire l’assist del vittimismo a Salvini. Mette il golfino buono, raccatta la moglie e parte per trascorrere una serena domenica sui colli. Ma mentre va su per Casaglia gli balena un agghiacciante “Trionfo leghista nel silenzio complice di una città”. Inchioda, mette il freno a mano, molla la moglie e si scapicolla di corsa verso il centro, gridando la sua indignazione verso quegli stronzi menefreghisti che passano la domenica sui colli. A metà di via S.Isaia comincia a temere che il titolo sarà “A perdifiato contro il fascismo, quarantenne colpito da infarto”, ma non demorde, perché col culo che si fecero i partigiani non è che noi possiamo lamentarci per un po’ di fiatone. Poi, quando già sente le urla della canea lombarda in sottofondo e si appresta a fare una deflagrante irruzione proletaria in Piazza, si dimentica dei titoli del giorno dopo e gli torna in mente quello del mattino stesso: “Moto Gp, il momento della verità”. Si ferma, si porta una mano alla tempia, sussurra “oh cazzo”…e torna a casa a vedere Valentino.
Lo Storico Avventista del Quarantaseiesimo Giorno. Denominazione del tutto casuale che indica il tipo umano che ritiene superate le dicotomie che hanno segnato la storia del Ventesimo Secolo: “fascismo/antifascismo”, “destra/sinistra”, “socialismo/liberismo”. E’ talmente convinto dell’avanzata della Storia che ritiene rottami del passato anche parole come “solidarietà”, “tolleranza”, “cooperazione”.
“E lo Stato sociale? Anche quello è superato??” gli chiedo.
“Eh no cazzo! Lo Stato Sociale è un gran gruppo!!!”, risponde entusiasta.
Ieri non si sa cosa abbia fatto, perché chiedere a uno cosa ha fatto quando in città c’era l’infestazione leghista è un cascame del passato.