E’ il nuovo anno.
Bisogna essere speranzosi
e aspettare con un sorriso l’anno che arriverà, sicuri che il futuro porterà
gioia, fortuna e tanta felicità.
Non mi viene.
Non per polemica
verso la vita, a cui voglio bene pur se è così restia a regalare un po’ di
soddisfazione alle umane genti, tutte pressate dalla mancanza di lavoro,
denaro, idee.
No.
Ho un momento di
tristezza retroattiva incredibile, insensata, illogica, fatta di colori
sbiaditi e musica di Bowie che esce da una musicassetta, gracchiante dentro un
qualche Renault 4 all’inizio di quei maledetti anni 80.
“Ground Control to major Tom…”
Io avevo poco
più di 10 anni.
Non sapevo
nulla, non capivo nulla, ma avevo la gente intorno a me che moriva.
Morivano tutti i
giorni, morivano a manciate.
Morivano di pere.
Morivano di pere.
Erano vittime
dell’ignoranza cui erano costretti, delle esistenze troppo piene di cemento e
aride di cielo, erano figli inutili di un popolo che aveva smesso di volersi
bene.
Io giocavo in un
parco, in quegli anni di mondiali vinti e Sandro Pertini e bambini che
sparivano nei pozzi, e ricordo che una delle attrazioni morbose di noi
pischelli strafatti di pallone era nascondersi dietro una siepe e sbirciare
i ragazzi più grandi, che non giocavano più con la palla perché giocavano con
le siringhe.
Li vedevamo
seduti sul prato, con le clarck e i pantaloni a tubo da picchiatello, a tirarsi
su le maniche di camicie colorate e bucarsi le braccia magrissime.
Noi ci sentivamo
eroi che affrontavano il pericolo, perché stavamo assistendo al grande tabù, al
male assoluto, a ciò da cui i grandi ci dicevano di scappare.
Infatti
scappavamo.
Gonfi di paura
davanti al male, al nulla, alla merda definitiva.
“This is major Tom to Ground Control…”
Faceva tanto
caldo in quei giorni di luglio. Nel tepore della mia casetta c’era Paolo Rossi
che gonfiava le reti che era un piacere, c’erano gli Spuntì al tonno che tanto
mi piacevano e c’era Carlo Massarini che conduceva Mister Fantastic.
In quel giardino
d’ingegneria invece no.
Non c’era nessun
tepore, ma solo un grande albero di rusticani, con un grande nodo nel tronco.
In mezzo a quel
nodo c’erano decine di siringhe piantate.
Ricordo quell’albero
come fosse il simbolo di centinaia, migliaia di vite di ragazzi portate via dal
nulla che erano le loro esistenze, tutte piene di racconti di immensità e di
sguardi persi all’orizzonte, di amicizie indistruttibili e di sbarbine dolci
come il mascarpone di questi giorni di Natale.
Non avevano una
speranza capace di arrivare fino al mattino dopo.
Neanche una,
cazzo.
Una generazione
intera, o buona parte di essa, costretta a una sterile ribellione e lasciata
senza le armi per decodificare la realtà, incapace di capire che la cultura
dello sballo può essere una trappola che ti regala gioie effimere e ti ruba il
futuro.
Se ne andavano a
25, a 20, a 16 anni…facendo una cosa che a me ora, nel pieno dei miei 40,
terrorizza.
Cosa eravamo?
Come abbiamo potuto
permetterlo?
Ascoltavano i
Pink Floyd quei ragazzi, ascoltavano il primo Vasco, ascoltavano le stesse
canzoni che ascoltavamo noi, dicevano le nostre stesse parole e facevano i nostri
stessi sogni.
Ma erano solo canzoni,
parole, sogni.
Nulla di
materiale.
Nulla di reale.
Nulla di eterno.
A me, ancora
dopo tutti questi anni, ogni tanto tornano in mente.
Mi viene da
pensarci per qualche inutile secondo.
Mi viene da
volergli bene.
Gli chiedo anche
scusa, per quel cazzo che conta.
E buon anno.
Anche a loro.
“Can you hear me major Tom?”