Di
fronte ad eventi come l’applauso agli assassini di Aldrovandi da parte del Sap,
il Sindacato Autonomo di Polizia, io non mi accontento di condannare.
Io
voglio di più.
Voglio
capire.
Perché
se non ci prendiamo un tempo per far sedimentare la rabbia e lasciare che su
di essa prevalga la quiete della ragione, noi non siamo uomini.
Siamo
bestie.
Così
sono andato da uno di quei poliziotti che applaudivano, un collega dei quattro
condannati, e gli ho parlato. La sua divisa mi faceva un po’ paura, e pure quella pistola nascosta, simbolo di potere ed eterno strumento di lotta tra il
bene e il male. Ma mi sono fatto coraggio, perché volevo concedergli il diritto
di spiegarsi, quel diritto sacrosanto da cui nessuno di noi può essere escluso.
Volevo
credere che non fosse tutto così brutto e senza speranza.
Volevo
che ci fosse una giustizia.
Così
gli ho messo una mano sulla spalla, squadrata e possente sotto la divisa, e gli
ho detto: “Io non ti giudico, non ancora. Tu sei tu, io sono io. Tu sei un uomo,
io sono un uomo. Siamo uguali davanti al destino e io chiedo a te di
raccontarmi chi sei e quali sono i motivi di quell’applauso. Mettiamo da parte
le passioni, dimentichiamo rancori che non ci appartengono e lasciamo che sia
solo la nostra intelligenza a parlare”.
Lui,
uomo tra gli uomini, divisa tra le divise, mi ha guardato dritto negli occhi e ha
risposto con tutta la forza del suo pensiero.
“Nghh
gneee bllfff nguu bafanàààà!”
A
posto amico.
Ho
capito perfettamente.
Ho capito tutto.
Ho capito tutto.
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