A quei tempi ci
si trovava all’una in baracchina.
Gli occhi stanchi
per via delle notti alcoliche al Link, camminata curva e mani in tasca per
darsi un tono, poche cicatrici ancora nelle anime di sbarbi.
Erano le fredde
domeniche allo stadio, in una Bologna che sembra lontana mille anni e che ha i
contorni sbiaditi, di ricordi che fa male persino nominare. Il campo no, quello
resta vivido di colori anche negli angoli più nascosti della memoria.
E’ verde il
prato del nostro Dall’Ara, ha l’erba soffice che pare una metafora di vita
agiata, di cura e sorgenti e cibo buono che ti aspetta a casa. Sembra il prato
dove giocano gli dei, quando tirano due calci su nei Campi Elisi.
I fumogeni
esplodono in curva e le divise dei ragazzi sono accese come andassero incontro
al futuro, a una Europa che sembra persino poter diventare nostra.
Sono rosso-blu,
cazzo.
Noi cantiamo e
ridiamo e fumiamo e siamo uguali a tutti gli altri, nel rito confortevole che
ti fa appartenere all’identità collettiva.
Siamo tanti
piccoli spartani con le pezze al culo.
Siamo persino
fieri, a volte.
Siamo sballati,
sempre.
In campo
succedono le cose più belle che mai ci è capitato di vedere, quelle che di
solito vedi solo in tv: gli scambi, le corse, i fraseggi, i dribbling, i gol.
Un sacco di gol,
cazzo.
Ci sono i portieri
che non si passano, i terzini che mordono, le ali che galoppano e i centravanti
che tirano giù le porte.
Ci sono persino
i fantasisti conosciuti in tutto il mondo, che quando ti trovi in Asia capita
che trovi gente che ti invidia.
Loro.
A noi.
Lì in mezzo c’è
un tizio che se provi a saltarlo ti asfalta anche i parenti. Ha le gambe come
querce del nord, la schiena dritta come un giudice antimafia e due piedi
raffinati come incudini turche.
Che non lo come
sono le incudini turche ma sentivo il bisogno di scrivere una minchiata, per alleggerirmi un po' il cuore.
Ha un gran
fisicaccio quello là, ha la stazza fisica ed emotiva per prenderci tutti quanti
e farci guadare le acque tormentate della vita.
Ha un nome che
appena lo senti è già un coro.
Quei colori non
ci sono più.
Quelli che
eravamo noi non ci sono più.
Lui non c’è più.
Però grazie,
vecchio e grande Klas Klas Ingesson.