Se
cammini per quella città che solo gli sprovveduti potrebbero non chiamare
Bologna, può capitare che noti alcuni piccoli dettagli sulle persone e sulla
convivenza civile di cui non importa assolutamente a nessuno.
Con
ragione, tra l’altro.
E’
però importante, a mio avviso, fermarsi ogni tanto e ragionare su quello che
solo gli incauti potrebbero non chiamare “felsinean way of life”, e che
sicuramente è chiamato in cotal guisa da una categoria di persone alla quale mi
pregio di appartenere.
I
pirla.
Se
camminando per esempio in via Andrea Costa oltrepassi il viale ed entri in via
del Pratello, oltre che rimpiangere il profumo dei tigli che sa celare con
voluttà l’olezzo lercioso delle auto, bestemmierai per il dolore ai piedi che
provoca quel lastricato che solo gli assessori potrebbero non chiamare sassi di
merda.
Che
era almeno dall’ultima volta che passavo per Piazza Santo Stefano che non
provavo un dolore così.
Ma
stoico proseguo con orgoglioso petto e il cipiglio dei forti.
Pesto
una merda.
E
non voglio con questo suggerire che in Pratello vi siano più deiezioni canine
che altrove, anzi. Volevo solo scrivere che proseguo con orgoglioso petto, il cipiglio
dei forti e le palle che mi girano.
Sbuco
sul passaggio pedonale all’incrocio tra via Marconi e via Ugo Bassi, che per me
resta il posto con più gnocca di tutta Bologna.
Ho
visto autobus saltare tre verdi consecutivi per guardare il paesaggio e umarell
in bici lamentarsi perché se l’autobus non parte loro non vedono bene le
gnocche.
Dopo
aver attraversato otto volte avanti e indietro le strisce, entro in via Ugo
Bassi.
Qui
si possono fare alcune considerazioni sociologiche: le camicie col collo alto e
le scarpe con la punta lunga mi sembrano in calo.
Bene.
I
vestiti da barbone sono invece in crescita.
Un
osservatore sgamato potrebbe suggerire che il trend è legato al fatto che ci
sono più barboni, mentre un osservatore politicizzato noterebbe che quasi tutti
i barboni sono stranieri e questo è un chiaro indice del fatto che gli italiani
hanno una gran puzza sotto il naso perché si rifiutano di fare i lavori più umili.
Tipo
il barbone.
Mi
sembrano in numero e in quoziente di aggressività stabili quelli che ti
vogliono far firmare per la riforma della giustizia, contro la fame nel mondo, contro
le droghe e per le chiese metodistiche universali.
Io
su queste posizioni ho le idee molto chiare: riformiamo la fame nel mondo
partendo dai missionari cristiani che mandiamo in Africa a zappare mentre le
droghe ce le teniamo noi.
Punto.
Su
via Ugo Bassi mi paiono un pochino in crescita quelli che ti mollano i
volantini, i cosi…com’è che si chiamano…gli…ah sì…
Gli
scassacazzo.
Che
vorrei sapere se il ritorno commerciale di ognuno di quei volantini ripaga il
costo della carta usata per stamparlo e il frullamento delle mie palle ogni
volta che me ne sbatti uno sotto il naso, oh scassacazzo che non sei altro.
Giunto
in piazza mi si palesa davanti agli occhi una cosa molto bella: la piazza.
Che
di sera ha quella tonalità tipicamente medievale che solo le luci elettriche gialle
sanno darti.
Io
entro in Sala Borsa, la quale è quel luogo centenario nel quale si svolge il lavoro
più bazza che Bologna abbia mai riscontrato nella sua storia millenaria: la “guardia
giurata che intorta le sbarbe all’ingresso di Sala Borsa”.
Un
mestiere delizioso con un solo, enorme rischio: che il tuo collega sia un gran rompiballe.
E
viceversa.
Dopo
aver ammirato i pavimenti a vetro, i delicati camminamenti, i ricchi colonnati
e un po’ di gnocca, rammento che è veramente da sciocchi stare in Sala Borsa se
non si ha nulla da fare in Sala Borsa. Così me ne vado.
Attraverso
la piazza ricordando i bei tempi andati in cui si dava il becchime ai piccioni
senza paura che ti trasmettessero l’epatite con uno sguardo, ammiro la
facciata di San Petronio, che bisogna riconoscere che ci sono dei fotografi
davvero molto bravi in giro, e mi infilo nel Quadrilatero.
E’
stretto.
Molto
stretto.
Talmente
stretto che quando il pesce è molto fresco ti puoi ritrovare un’orata che ti
salta in grembo, un polipo che ti guizza in tasca e un gamberone che ti zompa
in…
Poi
ci sono anche tante belle bancarelle con la frutta e la verdura.
Quando
sono nel Quadrilatero vengo colto da un dubbio morale: vado a comprare un libro
che non leggerò mai all’Ambasciatori o da Feltrinelli?
Compro
tanti libri io.
Molti
di più di quelli che riesco a leggere, perché ho gli occhi più grandi degli
occhi.
Ma
da quando mi faccio prendere dai dubbi morali ho un po’ smesso, perché cammino tutto
tormentato, penso, ripenso e penso ancora finché sono in Piazza Santo Stefano e
allora non penso più ai libri.
Penso
solo a bestemmiare per via di quei sassi di merda.
Quando
sei in Piazza Santo Stefano, dopo che hai fatto le solite tre cose -che nell’ordine
sono: dirsi “oh quanto è bella!”, spiegare a qualcuno che lì di fianco ci abita
Prodi, guardare la gnocca- te ne vai da Piazza Santo Stefano.
A
quel punto puoi andare dritto, e se hai buone gambe e molta pazienza arrivi al
mare, oppure torni indietro, e passando per Piazza della Mercanzia ti chiedi se
rappresentino meglio Bologna i bimbi-minkia che stanno lì tutto il giorno a non
fare un cazzo oppure i fighetti che stanno lì tutto il giorno a sollevare le
patatine.
E
allora mi infilo nel ghetto, cercando di non guardare Feltrinelli per non farmi
riassalire dai dubbi di cui sopra.
Qua
mi perdo.
Intrichi
e vicoli e calli e stradine e viottoli e…
Pesto
un’altra merda.
E
non voglio con questo suggerire che nel ghetto vi siano almeno le stesse deiezioni
canine che in Pratello. No, stavolta la pesto apposta, anzi non c’era e ce l’ho
messa io apposta per pestarla, perché non sapevo più come uscire da questa minchiata
che sto scrivendo.
Così
mi fermo in qualche bar, probabilmente da Sam che non si chiama più da Sam, bevo
18 birre, sollevo le patatine, guardo la gente passare, mi pulisco le scarpe
luride e penso che magari un’altra volta, girando qua e là senza aver nulla da
fare, considererò l’eventualità remota e mai banale di farmi in toto i cazzi
miei.
Oppure
guardo meglio dove metto i piedi.
E
mi infilo da Feltrinelli.
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