martedì 10 settembre 2013

Panhattan




Una struggente Frosinone in bianco e nero incornicia le avventure sentimentali di un tennista ebreo, di mediocre carriera ma di buon rovescio incrociato: Adriano Panhattan. A 32 anni il nostro ha ormai imboccato il viale del tramonto, che purtroppo per lui è uguale al boulevard dell’alba e alla promenade di mezzogiorno, cioè lastricato di sconfitte, amarezze e smash negli zebedei. Ma Panhattan non si dà per vinto e coltiva ancora lo stesso sogno di quand’era ragazzo: vincere la finale di Wimbledon contro John McEnroe, 18-16 al quinto set, con 38 gradi all’ombra e la duchessa di Kent che a fine gara ti lecca il sudore e ti sussurra che è più buono di quello di Borg. La moglie cerca di far capire ad Adriano che forse è il caso di riporre i sogni nel cassetto, visto che McEnroe ha 54 anni e la duchessa di Kent 95, ma Panhattan è un romanticone e non vuole credere che quel mitico torneo sia diventato terra di conquista di serbi, svizzeri e spagnoli. “Ma cos’è, Giochi senza frontiere?”, protesta indignato, poi imbraccia la sua racchetta di legno old style e corre in palestra ad allenarsi come un pazzo, cioè gridando, ridendo, piangendo, facendo le smorfie e ammazzando scolaresche con un kalashnikov. I litigi con la moglie sono all’ordine del giorno e ci si perde in un oceano di incomunicabilità: lei gli grida che è senza palle e lui ribatte che non è vero, ne ha comprati 10 flaconi da Decathlon quel mattino, allora lei protesta che le sue battute non fanno ridere, ma lui dice che non devono far ridere, devono fare punto.
“Ma quale punto, era doppio fallo…”, sbeffeggia lei.
“Ah…ti fai due falli alla volta adesso, eh? Brutta troia svergognata!! Dimmi chi sono!!”, grida lui.
Il rapporto, come è inevitabile, finisce. La moglie lascia Panhattan per mettersi con Martina Navratilova, un fornaio di Velletri che ha cambiato sesso ma non lavoro, così impazza in tutte le panetterie della West Coast, da Los Angeles a San Francisco sino a Follonica. Per Adriano è un colpo durissimo, in un attimo si ritrova senza le dolci abitudini maturate in tanti anni di matrimonio: niente più coccole mattutine, stop alle effusioni serali, fine delle cinghiate notturne. Ma lui ha un sogno che lo tiene vivo e così continua ad allenarsi, giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno. Passati 5 mesi e sterminate 8 scuole elementari, Panhattan riesce a superare le qualifiche e ad iscriversi al torneo di Wimbledon. L’impatto con il mitico campo centrale mette paura, ma Adriano ha un sorteggio molto fortunato. Al primo turno batte un commercialista di Miami, pure lui uscito dalle qualifiche ma più per quantità di mazzette che per qualità del servizio; al secondo batte Nadal, che la sera prima ha fatto una colica renale e comunque si sa che l’erba non è il suo forte; al terzo invece becca un tennista a cui l’erba piace un sacco, tanto che prima di scendere in campo si fa quattro chilum e ride tantissimo mentre Adriano lo prende a pallate nei denti. Insomma, Adriano prende coscienza della propria forza e il torneo si trasforma in una cavalcata trionfale: negli altri turni Panhattan batte Murray, Djokovic, Tsonga, Stenmark, Mick Jagger, Napo Orso Capo, Goldrake e un lontano cugino di Bettega. Il tempo degli scherzi è finito, Panhattan è in finale! Adriano telefona alla moglie e le grida in faccia tutta la sua rivalsa: “Lo vedi che non è Giochi senza frontiere, puttana?”. Poi butta giù il telefono e va a giocare il fil rouge con Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri. 
(Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri, giudici delle prime edizioni di Giochi Senza Frontiere, furono figure fondamentali per la mia crescita intellettuale. Almeno quanto Edwige Fenech)
Si arriva così al giorno della finale. Dall’altro lato del tabellone lo spettacolo non è stato all’altezza: tanti tie break, qualche break point, un po’ di break dance…insomma, ha prevalso la noia. Ma la semifinale, quella sì, è stata eroica! Il grande favorito della vigilia, Roger Federer, ha perso contro un outsider imprevisto, capace di sovvertire le leggi della natura e dimostrare che anche a una certa età, quando c’è classe e tenacia, si possono raggiungere risultati incredibili. Sì, è proprio lui, una leggenda dello sport, il grande mancino, l’irascibile, il riccioluto, l’infinito…signore e signori…Diego Armando Maradona!
(So che fa strano, ma pare giochi a tennis. Ha cominciato nell’istante esatto in cui mi serviva uno da mettere al posto di McEnroe per fare sta gag del cavolo)
Diego è in formissima, basti pensare che da 4 anni ingerisce solo sushi. Disgraziatamente, la notte prima della finale gli viene un languorino e così mangia due squali, un tonno, tre siluri del Po e otto carpe del Mississipi. Tutto crudo. Sta che è una meraviglia, ma purtroppo è un ingordo e così butta giù anche un’acciughetta ripassata in padella. Schiatta all’istante. Alla lettura del testamento risulta che lascia le sue spettanze a John McEnroe, con cui aveva un flirt ai tempi del liceo.
Ecco così che Panhattan può sperare di coronare il sogno di una vita e battere in finale il mancino americano, uno talmente forte che una volta un cronista disse: “Sarei disposto ad avere 37 e 2 tutta la vita in cambio della seconda palla di servizio di McEnroe”
(La battuta è del grande Beppe Viola. Io rilancio: sarei disposto ad avere 37,4 per l’eternità pur di averla detta io)
Il giorno della finale fa un caldo torrido, Panhattan entra nel campo centrale e subito si emoziona: “La duchessa di Kent mi sorride!”
“E’ una paresi”, sobilla McEnroe, mago della psicologia pre-partita.
“Ma se mi fa l’occhiolino…”, azzarda Panhattan.
“Cecata da un occhio”, sentenzia John.
Ed è grande tennis. I due si scambiano diritti incrociati, lob liftati, rovesci lungolinea e anche i numeri di telefono, perché comunque c’è stima e dopo la partita si pensa a una birretta insieme.
E così, mentre tutto il mondo assiste a quel match destinato ad entrare nella storia del tennis, si arriva al quinto set.
La temperatura ormai ha raggiunto i 38 gradi, i due sono sul 16 pari, McEnroe tira un dritto al fulmicotone, Panhattan risponde con un rovescio a fil di lana, McEnroe mette una smorzata morbida come la seta e Panhattan approccia con un dritto vellutato. A quel punto McEnroe s’incazza: “Allora? Giochiamo a tennis o apriamo una sartoria?”, e sgancia un dritto bomba, ma Panhattan lo incoccia con una demi volee in top spin a due mani tagliata di rovescio con gli occhi chiusi mentre canta la Marsigliese e rinvia di testa un lancio del portiere del Manchester. Una magata pazzesca. Sembra punto, McEnroe si rende conto che anche correndo non potrà mai arrivare in tempo sulla palla, così chiama un taxi, che a Londra sono molto efficienti, e riesce a salvarsi, rimandando di là un lob altissimo, così tanto che rompe un finestrino del volo Addis Abeba-Città del Capo, fuori rotta perché al pilota piace il tennis e voleva dare un’occhiata. Dopo un quarto d’ora con il campo centrale a naso all’insù, il giudice di sedia si rassegna alla scomparsa della palla e assegna il punto ad Adriano: 17-16! Ora Panhattan batte per la vittoria, che è comunque un progresso rispetto a una lontana parente che lo faceva per soldi. Fa due ace puliti e uno sporco. Molto sporco, talmente sporco che l’arbitro non vede bene e deve chiamare una ripassata in lavatrice per capire se è punto. Infatti è punto. Siamo al match point!
Adriano, a un passo dai suoi sogni, getta un’occhiata alla duchessa e scopre che s’è scordata il parasole: il che è spiacevole perché con la canicola si è liofilizzata. Lui cerca di non pensarci e di restare concentrato, ma l’emozione si fa sentire e così la battuta di Panhattan è un po’ fiacca, ride solo la Regina che ha l’apparecchio acustico fallato e gli era sembrata una barzelletta su Little Peter, il protagonista classico dell’umorismo inglese. Ma McEnroe, sfibrato dalla temperatura, va in difficoltà e rimanda indietro una palletta debole, su cui Panhattan si avventa col vigore di un drago, spalanca la racchetta vorace, sta per schiacciare con la gioia e la frustrazione di una vita intera ma… all’entrata del campo compare sua moglie, stravolta, il viso straziato dalle lacrime, distrutta per quell’amore perduto. Si getta in ginocchio e nel silenzio di un intero pianeta grida: “Adrianooooooo!!!!”. 
750 milioni di persone si mettono a piangere, Silvester Stallone muore d’infarto, Celentano si sveglia dalla pennichella e Panhattan liscia lo smash. Swishh!
E’ l’inizio della fine. Nonostante lei venga arrestata, interrogata, picchiata, tradotta a Guantanamo e in altre 26 lingue, infine seviziata più volte fino a scappare con un suo aguzzino da cui avrà due gemelli ma non la parure di diamanti che tanto desiderava, Adriano non si riprende dallo shock e McEnroe vince facile per 19-17. Il mondo esulta mentre si spezza per sempre il sogno di un eroe, l’uomo capace di sfidare le proprie paure, le angosce, i tormenti… gli sgomenti, gli sfinimenti, gli ottundimenti, il mal di denti, un gruppo di dissidenti e persino un fitto lancio di assorbenti. Valle a capire le tifose.
Qui finisce il sogno dell’unico, inossidabile, impareggiabile, indistruttibile, inaffondabile… Adriano Panhattan.

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